Intervista a Antonio Latella. Nato come approdo di un progetto di alta formazione, lo spettacolo "Santa Estasi" è diventato subito oggetto di grande attenzione nazionale, sia per l'eccellente novità della messa in scena, sia per l'importante metodo di lavoro.
Sedici attori e sette autori per un progetto teatrale che oggi in Italia non ha eguali; ideato da Antonio Latella e promosso da Pietro Valenti, direttore artistico del Vie Festival 2016 di Modena. Santa Estasi è un lavoro scenico straordinario, un autentico colossal ispirato alla tragedia greca e alla “saga” degli Atridi, che si snoda in otto spettacoli di concezione diversa e in stili differenti, riuniti entro una sola grande storia; otto movimenti ricondotti ad unità estetica dalla magistrale regia di Latella.
Presentato la scorsa primavera nella stagione teatrale delle Passioni di Modena, il lavoro è stato quindi proposto a Vie Festival con una rappresentazione articolata in due giornate. La magnifica esecuzione di tutti i giovani attori, la potenza di una messa in scena fatta con mezzi semplici ed una creatività incandescente, la formidabile tensione che attraversa l'intera opera durante le dodici ore di rappresentazione, hanno giustamente fatto di questo progetto il caso teatrale dell'anno, vincitore del Premio della Critica per aver «segnato la scorsa stagione». Abbiamo chiesto ad Antonio Latella di raccontare le ragioni e la costruzione dell'opera.
Come nasce questo bellissimo progetto di «Santa Estasi»?
Valenti mi aveva proposto di occuparmi del corso di Alta Formazione dell'ERT. Io gli ho chiesto di essere molto libero, per poter mettere gli attori in condizione di fare un vero percorso di crescita, e non solo uno “spettacolino”: volevo mettere gli attori davanti a una montagna di lavoro, che è l'unico maestro. Ne è venuta fuori una cosa più grande del previsto; però ci siamo resi conto che è stato tutto veramente necessario, soprattutto per i ragazzi. È stato veramente un “andare alla montagna”.
La crescita degli attori era il vero punto di arrivo.
Abbiamo sempre pensato che il lavoro sarebbe poi andato in scena. Però, anche se i pezzi singoli hanno un senso, ne capisci il valore quando vedi il progetto tutto assieme. E sinceramente non ci aspettavamo tutta questa risposta che è poi arrivata.
E invece siete diventati il caso teatrale dell'anno.
Sì, abbiamo fatto quello che i “teatri nazionali”, come si chiamano oggi, dovrebbero fare: creare un ponte con il domani. Non dovrebbero annunciarlo e poi non far niente. Questo è un progetto per sette giovanissimi drammaturghi e per una una compagnia di attori sotto i trent'anni.
Perché hai scelto la vicenda degli Atridi?
Gli Atridi sono un po' la soap opera di un tempo, e il pubblico si riconosceva come noi davanti alla televisione.
In scena il livello è molto alto. Hai trattato questi ragazzi da allievi o da attori?
Sempre da professionisti. Ho cercato di evitare il rapporto maestro-allievo. Tuttavia questo è un processo di formazione, anche per me, e perciò ho cercato di proteggere gli attori. Non mi sarei mai permesso di chiedere cose estetiche solo perché funzionali alla scena. Più volte ho detto loro: «Se fosse un mio spettacolo io lo farei così». Ma questo non è un mio spettacolo: è un'altra cosa.
Ti sei lasciato trasformare anche tu.
È un atteggiamento necessario, lo scambio avviene se anche chi conduce il gioco si mette in discussione. Dinanzi a cose che magari come estetica soggettiva non ti piacciono devi trovare il modo per entrare in contatto con l'attore. Se fosse un mio spettacolo pretenderei il contrario.
Sei soddisfatto delle drammaturgie degli allievi?
Sono soddisfatto e credo che sia stato fatto un gran lavoro, anche rispetto alle giovani età. Naturalmente su otto drammaturgie ce ne sono forse tre che rientrano nel mio gusto, ma questo non è importante, il senso dell'intero lavoro è la messa in scena complessiva. Gli autori hanno espresso mondi diversi, la mia sfida era quella di immergersi in tutti questi mondi.
Nello scenario italiano questo vostro progetto è un caso quasi unico: da noi la capacità di progettare sul teatro guardando al futuro è abbastanza acerba.
In Italia spesso la formazione è generica. Una situazione dove il Ministero ti chiede di aprire una quantità di scuole mi fa paura. Ogni Stabile nazionale ha una scuola; e questo da un lato magari è bellissimo, però stiamo dicendo che c'è un'offerta di lavoro pazzesca. In realtà l'offerta di lavoro non c'è. Allora quando si fanno questi corsi di formazione bisogna essere generosi perché questi giovani attori possano avere un buon ricordo del loro inizio.